Sono fresco di uno speech in cui parlavo di internazionalizzazione e quindi ho deciso di mettere nero su bianco questo post all’interno del quale vorrei dare qualche semplice dato di fatto che può interessare a chi, con la propria impresa, è interessato ad approcciare l’internazionalizzazione ma anche a chi vende già all’estero.
Oggi c’è un gran parlare attorno ai temi legati all’internazionalizzazione e all’export delle imprese italiane e quindi è giusto mettere il naso su questi temi, vista l’importanza strategica che essi determinano.
Vorrei subito chiarire che un’impresa italiana, che al giorno d’oggi sia esportabile, ha il dovere di perseguire con tutte le sue forze un percorso chiaro e lungimirante di internazionalizzazione.
Primo concetto da chiarire: quale impresa è esportabile?
Dal mio punto di vista è esportabile quell’impresa che è in grado di ambire a vendere un prodotto o un servizio fuori dal contesto italiano perché può risolvere dei problemi a clienti stranieri vincendo la concorrenza internazionale.
Diventa quindi esportabile l’impresa che ha degli elementi di unicità e di differenziazione così rilevanti che può ambire senza problemi a giocare la sua partita di business anche a livello internazionale.
Le imprese italiane sono vere e proprie eccellenze mondiali in moltissimi campi che, a differenza di quello che si pensa, non sono solo il food e il fashion che anzi non rappresentano il vertice delle classifiche in termini dei prodotti più esportati dalle nostre aziende.
Il primo grande concetto che voglio esprimere, conoscendo molto bene l’approccio che hanno la maggioranza delle imprese, PMI soprattutto, quando affrontano il tema dell’internazionalizzazione, è che questo rappresenta un percorso complesso, difficile e possibile con successo solo ed esclusivamente alle aziende più preparate.
La mia prima tesi quindi è proprio questa: lungi da me disincentivare l’internazionalizzazione delle imprese purché il tema venga affrontato dagli imprenditori con grande serietà e con grande consapevolezza che i mari di cui stiamo parlando sono quelli con i moti ondosi più alti.
Come dico sempre, infatti, un processo di internazionalizzazione, che dura anni poiché inizia e non termina più, rappresenta la traversata dell’oceano Pacifico e non può di conseguenza essere “affrontata in gommone”.
Per argomentare ancora meglio le mie tesi voglio presentarti una singola tabella di numeri, la cui fonte è Istat-ICE.
Primo dato importante: in Italia, nell’anno 2017, le aziende che hanno esportato sono state il 2,9% del totale. Questo significa che il 97% delle imprese italiane non vende nemmeno un chiodo all’estero.
Un altro grande spunto lo possiamo trarre andando ad analizzare il comportamento delle aziende esportatrici.
Queste sono poco più di 125 mila e producono ricavi per circa 420 miliardi di euro.
Di queste imprese sono circa 73 mila quelle che anno meno di 10 addetti, circa 23 mila quelle che hanno da 10 a 19 addetti, circa 17 mila quelle che hanno da 20 a 49 addetti, circa 6 mila quelle che hanno da 50 a 99 addetti, circa 3 mila quelle che hanno da 100 a 249 addetti, circa mille quelle che hanno da 250 a 499 addetti, circa 700 quelle che hanno più di 500 addetti.
Questa informazione ci dice che la maggioranza delle imprese coinvolte nei processi di export, circa il 58%, sono imprese con meno di 10 addetti.
Se ci limitiamo a un’analisi di questo tipo però, commetteremmo un grande errore di lettura dei dati. Questo perché se andiamo a vedere i volumi di fatturato prodotto dalle imprese esportatrici, noteremo come la fetta più grande della torta la portano a casa, senza dubbio alcuno, le imprese più grandi.
Le sole 782 imprese che hanno più di 500 dipendenti producono ricavi per 144 miliardi, pari a 184 milioni cadauna.
Andando all’estremo opposto, quello delle ben più numerose 73 mila imprese che hanno meno di 10 addetti, vediamo come il fatturato medio di export sia di circa 280 mila euro.
Cosa voglio dirti con questo esempio numerico?
Solo e semplicemente quello che i dati ci dicono, ovvero che il grosso del business italiano, in termini di Export, è faccenda di poche migliaia di imprese del nostro paese che sono vere e proprie eccellenze, multinazionali in grado di competere con chiunque nel mondo.
Di nuovo, questo non significa che un’impresa piccola non debba guardare allo sviluppo commerciale estero, anzi.
Quello che voglio sottolineare però è il fatto che più piccola è l’impresa, minore sarà il risultato che ci dobbiamo attendere in termini di fatturato prodotto all’estero.
Questo è un grande tema poiché riscontro molto spesso dei desiderata da parte degli imprenditori, soprattutto appartenenti alle categorie della piccola e micro impresa, del tutto fuori luogo poiché sovrastimano di brutto le potenzialità commerciali della propria impresa.
Avviare un processo di internazionalizzazione significa in primis studiare i mercati potenziali e capire in essi quali possano essere le nicchie in cui inserirsi.
Le stime delle vendite possibili in un arco temporale anche medio, come potrebbe essere quello di un triennio di lavoro, devono basarsi su ragionamenti oculati e soprattutto sull’analisi dei dati.
Molto spesso la semplice analisi di informazioni già esistenti ci evita di fare stime errate e di pensare di raggiungere degli obiettivi che poi si rilevano del tutto lontani da una reale fattibilità.
Sono moltissimi i dati prodotti dall’ISTAT – ICE che ti consiglio di analizzare nei report annuali che ci vengono messi a disposizione in forma gratuita.
Tra questi è possibile consultare i comportamenti delle imprese italiane e relativi settori merceologici a cui appartengono, ma anche il numero dei paesi in cui le aziende esportano fino ad arrivare alla classifica dei paesi con i quali intratteniamo dei rapporti commerciali.
Il primo consiglio che quindi mi sento di dare è quello di effettuare una profonda analisi e ricerca di mercato per evitare di sprecare energie nei posti sbagliati e porsi obiettivi distanti dalla realtà.
Un altro aspetto strategicamente fondamentale per poter ambire ad avere successo nei mercati internazionali è quello che risponde ai crismi del posizionamento strategico differenziante. Siamo quindi all’interno del terreno occupato dal marketing strategico e siamo in quella fase che deve focalizzarsi su una chiara risposta alla prima domanda che qualsiasi imprenditore dovrebbe porsi nel momento in cui stia valutando lo sviluppo commerciale all’estero da sua impresa:
perché mai un’impresa straniera dovrebbe acquistare i miei prodotti?
A questa domanda ci deve essere una risposta chiara e convincente.
Un’azienda italiana che produce macchinari industriali per il packaging o per la lavorazione del legno può avere un know how spendibile in tutto il mondo senza problemi. Lo stesso vale per un’impresa del settore chimico. Un po’ diverso se siamo dei manutentori di impianti fotovoltaici.
Qualsiasi sia il business di cui si occupa l’azienda, l’elemento fondamentale è che, nei mercati esteri nei quali ci si vuole rivolgere, da una parte ci sia una domanda di mercato e dall’altra la risposta offerta che possa battere quella dai competitor locali o di altri player provenienti da altri paesi.
Non serve essere strateghi del marketing per capire che, nel momento in cui vado ad offrire i miei prodotti in mercati che non siano l’Italia, il terreno della concorrenza diventa ancora più strutturato e arduo da affrontare.
Spesso la sola motivazione che induce alcuni imprenditori italiani a guardare all’estero è quella per la quale si pensa che incassare i crediti sia più facile e meno rischioso. Se da una parte questo può essere anche vero, dall’altra non è certo un elemento sufficiente per pensare di avere successo in un contesto internazionale.
Un altro grande concetto che voglio esprimere in questo post è quello per il quale a fare business all’estero non sia solo la divisione commerciale dell’impresa, ma sia la totalità della sua struttura. È infatti tutta l’azienda che deve essere organizzata per affrontare i bisogni e i livelli di performance che bisogna garantire ai propri clienti stranieri.
Anche in questo caso sono molteplici gli esempi che potremmo portare al tavolo per i quali sono evidenti le inefficienze e l’impreparazione del sistema azienda al fine di offrire, a livello internazionale, degli ottimi servizi.
Ci sono aziende italiane che vogliono lavorare all’estero ma banalmente hanno una grandissima difficoltà a comunicare anche in sola lingua inglese.
Un ulteriore tema da portare al tavolo, se vogliamo avere successo a livello internazionale, è che a livello di cultura di marketing dobbiamo essere un’impresa estremamente virtuosa.
Infatti il marketing di chi si muove a livello internazionale è caratterizzato da piani, programmi e strategie per ognuno dei paesi nei quali l’impresa lavora.
Non è più sufficiente avere un solo piano di marketing ma serve avere un piano per ognuno dei paesi nei quali l’impresa vende o vuole vendere.
I propri partner stranieri, siano essi distributori, importatori, o funzionari commerciali, dovranno infatti essere supportati da un marketing che permette loro di centrare gli obiettivi di vendita.
Insomma le regole da seguire per avere successo a livello internazionale sono molteplici e vanno rispettate tutte.
VOGLIO SAPERNE DI PIÙ SULL’INTERNAZIONALIZZAZIONE: DESIDERO UN CHECK UP GRATUITO
L’oggetto di questo post vuole esclusivamente essere quello di mettere in guardia chi pensa che questo tipo di attività sia semplice e basti sfruttare un voucher per l’internazionalizzazione per avviare un percorso che dia chissà quale tipo di risultati.
Come ho detto in apertura però, se un’impresa è esportabile e può giocarsi la partita a livello internazionale perché detiene elementi differenzianti sufficienti per avere ragione anche in terra straniera, è doveroso che essa intraprenda questo tipo di percorso.
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